lunedì 14 aprile 2014

Verso l'orizzonte dell'accoglienza e della speranza (di Anthea Verzuto)




A Lampedusa, giorno 5 aprile 2014, si è tenuto il Convegno “Lampedusa città dell’Europa” organizzato dall’Associazione Emmaus, un movimento nato nel novembre del 1949 dall’incontro di uomini che hanno deciso di unire le loro forze per aiutare coloro che soffrono, convinti che, salvando gli altri. si diventa davvero i salvatori di se stessi.
Tra gli ospiti del Convegno c’era un ragazzo di nome Mohammed Salehdata, di 22 anni, di origine ciadiana, vissuto in Libia fino a qualche anno fa. Mohammed ci ha raccontato della vita nel suo Paese, di quando, molto piccolo, perse i genitori e andò a vivere con lo zio. Quando lo zio si trasferì a Tripoli, lui decise di non seguirlo e volle continuare gli studi. Iniziata la rivoluzione in Libia, nel 2011, anziché restare e prendere le armi in mano, intraprese un viaggio che lo avrebbe condotto, se tutto fosse andato bene, sulle coste italiane.
Nonostante le difficoltà del viaggio, è riuscito a farcela, insieme ad un suo amico e ad altra gente che era nella sua stessa situazione,  ha ottenuto il permesso di soggiorno, nonostante i lunghi tempi burocratici, ed è andato nel centro di accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo di Pisa.
Dopo due anni di gestione da parte della Croce Rossa, il governo ha ritenuto conclusa la cosiddetta “Emergenza Nord-Africa”, il programma per l’accoglienza dei profughi fuggiti dalla guerra in Libia. Il 28 febbraio 2014, gli operatori della Croce Rossa hanno svuotato i prefabbricati in cui vivevano i migranti. Il centro chiudeva e i ragazzi non avevano più un posto sicuro in cui stare, ma gli studenti di Scienze per la pace non si arrendevano e, dopo tante difficoltà , oggi il centro richiedenti asilo e rifugiati di Pisa è in Italia il primo centro autogestito.
I ragazzi per il loro sostentamento vi svolgono dei lavori agricoli e manuali e sono felici di imparare la lingua italiana , di preparare i piatti tipici della cucina del loro Paese d’origine, di avere un luogo che finalmente possono chiamare “casa”, in quanto abitata da “una grande famiglia”.
Questi ragazzi, come ci ha raccontato Mohammed, finalmente si sentono al sicuro, possono fare dei progetti, hanno dei sogni che vogliono realizzare. Mohammed ama la musica rap, ascolta Tupac e altri cantanti che hanno fatto la storia del rap, sa che cosa sono le vere difficoltà, cosa si prova quando tutto sembra essere perduto e nonostante ciò ha avuto la grande forza di prendere in mano le redini della sua vita e  dire “non finisce finché sono ancora vivo”.
Quando lo abbiamo incontrato, abbiamo visto nei suoi occhi una luce, la luce di una persona che finalmente pensa di essere nel posto giusto al momento giusto. Finalmente la sua vita e la vita di altri ragazzi ospiti di questo centro autogestito sembra essere uscita dal tunnel oscuro in cui era entrata. Adesso possono vedere una luce nuova, quella dell’amore, della gioia, della solidarietà; adesso possono dire di essere trattati come persone.
E’ vero, bisogna ascoltare le storie di vita della gente, bisogna avere curiosità e attenzione verso chi ha avuto percorsi diversi da quelli nostri, solo così comprenderemo cosa sia il dolore, la speranza, il diritto legittimo di una vita migliore, solo così avremo la possibilità di incontrare un mondo per noi sconosciuto, ma ricco di cose da imparare… Solo così potremo realmente imparare a vivere.

Un calcio all'indifferenza (di Noemi Gugliotta)



Il 16 marzo 2014, noi ragazzi del progetto abbiamo passato una mattinata in compagnia dei ragazzi dell’alloggio S. Anna. La mattina è iniziata con un’amichevole partita di calcetto. I giocatori scesi in campo provenivano dall’Eritrea, Somalia, Ghana, Gambia e Italia.
Prima della partita, muniti di carta e penna e molta curiosità, abbiamo intervistato i ragazzi dell’alloggio, appurando i loro nomi, il paese di provenienza, da quanto tempo si trovano in Italia e se si trovano bene.
Le squadre scese in campo erano otto, ognuna formata da sette giocatori. Dopo tanti goal, risate e applausi ci siamo recati  all’alloggio S. Anna dove abbiamo pranzato. In seguito i ragazzi dell’alloggio ci hanno intrattenuto con musica tipica del loro paese e ci siamo ritrovati tutti in cerchio a cantare, noi ragazzi, le professoresse e le suore che si prendono cura dei ragazzi ospiti dell’alloggio.
In incontri precedenti abbiamo trattato il modo in cui arrivano questi ragazzi, che scappano da situazioni socio-economiche in cui sarebbe impossibile vivere per cercare di costruirsi un futuro migliore e, una volta lasciato il loro paese nativo, non hanno nemmeno la certezza dell’ arrivo e anche se arrivano non vengono tutelati a sufficienza dalla legge e dalla popolazione vengono visti solamente come qualcuno che vuole rubare il lavoro.
Sarebbe bello se ci considerassimo cittadini del mondo, senza frontiere, senza razzismo. Nessuno avrebbe paura se si capisse che mantenere le tradizioni e la cultura di un popolo non significa preservarle da attacchi nemici, proteggendole o soffocandole e cristallizzandole, rinchiuse dentro i confini delle nazioni inventati dagli stessi uomini.
L’uomo ha sempre avuto paura “dell’altro” e tende a sminuirlo, elogiando invece se stesso e il proprio paese.
Le esperienze fatte con il progetto sono state sempre molto emozionanti, ma questa lo è stata particolarmente, poter stare a contatto con ragazzi che provengono da un altro Paese con usi e costumi diversi ci ha fatto rendere conto che eravamo più simili che mai: tutti abbiamo condiviso allo stesso modo la passione per il calcio, l’amore per la musica e la pizza!!

Immigrazione: la ricchezza della diversità (di Gloria Giovenco)



Le richieste educative da parte di individui appartenenti ad aeree geografiche diverse sono sempre più numerose. Tali richieste, seppur in parte accolte, spesso rimangono in ombra, considerate di poco conto da chi indossa le vesti del disinteresse, o nella peggiore delle ipotesi, del pregiudizio.
Il pregiudizio marca le disuguaglianze, non ci permette di andare al di là di ciò che appare diverso. Senza dubbio, la diversità è tangibile, inevitabilmente visibile, impossibile da negare ma essa è il sigillo dell'unicità di un popolo.
Come sostengono le pedagogiste Favaro e Colombo, "la diversità può diventare un potente veicolo di scambio e reciprocità". Ma, affinché sia così, bisogna attivarsi per sensibilizzare il resto della popolazione che contrasta l'integrazione, piccolo passo verso il progresso sociale. Anche Camara afferma che "bisogna annullare il confine tra il noi e il loro". In fondo, l'umanità è l'insieme di tanti gruppi che comprendono: tradizioni, lingue, culture diverse.
Portando avanti la riflessione sulla prospettiva pedagogica, è innegabile l'esigenza di un'intercultura intesa come integrazione reciproca. Ciò significa che non ci si deve soltanto limitare ad accettare lo straniero come presenza da tollerare obbligatoriamente, ma coinvolgerlo e renderlo partecipe delle nostre modalità di vita, mostrandosi favorevoli a conoscere il suo mondo culturale.
Diverse sono le modalità di accoglienza, l’importante è ricordare che il primo passo dovrebbe partire proprio dal paese ospitante che deve attivarsi, facendo in modo di aiutare gli stranieri a superare il disagio iniziale.
Molte associazioni e gruppi di volontari offrono il loro servizio di accoglienza. Inoltre, diversi sono i progetti che sono portati avanti dalle scuole italiane come ad esempio "Generazione Intercultura". Stimolando le corde della condivisione è possibile sensibilizzare i giovani e renderli partecipi di attività che potrebbero eliminare le controversie tra esseri umani; un tasto motivante potrebbe essere la musica. Sarebbe interessante coinvolgere bambini e ragazzi all'ascolto di trame musicali che non conoscono, che affascinano e che stimolano alla comunicazione con chi detiene la conoscenza delle stesse e con i paesi che le originano. Musica e racconti che richiamano luoghi lontani, che favoriscono un processo immaginativo che ospita al centro della fantasia la possibilità di conoscere luoghi e popolazioni che in precedenza non si erano presi in considerazione.
Nelle strutture scolastiche, potrebbe essere utile la creazione di spazi dedicati alla condivisione dei bambini italiani e stranieri. Crescere con chi ci sta accanto, straniero e non, permette di poter raggiungere una tale considerazione dell’ individuo da non soffermarsi sulle differenze caratteriali o sociali. Ciò che si condivide nelle prime fasi di vita è talmente rilevante e indelebile da non poter essere sottovalutato nella vita adulta.
Riteniamo quindi importante l'inserimento dei figli di immigrati nelle scuole primarie, con docenti impegnati nel favorire la loro integrazione, senza minimizzare l'importanza del loro vissuto nel paese d'origine e la loro identità culturale.
Tutti dovremmo inculcare, a chi ci sta intorno, l'idea che c’è qualcosa, oltre le differenze, che ci accomuna e ci rende uguali, ciò potrebbe essere utile ad eliminare la paura dell'altro come "diverso", affinché tutti possano sentirsi unici, ma uguali al tempo stesso, e liberi di essere semplicemente quello che sono!

Immigrati: integrazione e inclusione (di Alberto Rosario Colombo)



Gli immigrati, dopo aver effettuato i processi di riconoscimento,  vengono inseriti nella società. Per quanto riguarda i paesi dell’ Europa occidentale, abbiamo delle norme,  o modelli,  che regolano l' integrazione dei migranti negli stati. I principali modelli sono quattro: Temporaneo, Assimilativo, Multiculturale, Implicito.
Temporaneo: in questo modello, il permesso di soggiorno viene collegato al permesso di lavoro, per cui l’immigrato che perde il lavoro viene espulso. Per il tempo in cui l’immigrato è titolare di un contratto di lavoro,  gode degli stessi diritti che spettano al lavoratore locale. Tuttavia,  non sono riconosciuti quei diritti sociali legati ad un’integrazione vera e propria.
Assimilativo: l’immigrato è considerato come un individuo destinato a diventare un cittadino della comunità ospitante,  per cui è relativamente semplice accedere alla cittadinanza.
Multiculturale: l’immigrato è considerato innanzitutto come parte di uno dei gruppi nazionali che si sono insediati in un dato paese,  rimanendo però discriminati;  viene quindi attribuito loro lo status di minoranze da tutelare.
Implicito: l’immigrazione non viene né riconosciuta né incoraggiata.

Migrazioni e reti di sostegno
In molti studi sui fenomeni migratori si fa riferimento ai vari tipi di reti di relazioni sociali che sostengono il migrante, nel percorso di inserimento dal Paese d’origine a quello di destinazione. Le reti sono, infatti, il centro attorno a cui si attiva ogni spostamento del migrante.
Prendendo in considerazione le diverse fasi della migrazione, possono essere individuati tre diversi tipi di reti:
    1. Le reti alla partenza. La presenza all'estero di familiari, parenti, amici, conoscenti, svolge, nel momento in cui si prende la decisione di migrare, una funzione fondamentale, poiché garantisce una maggiore sicurezza rispetto ai problemi che la migrazione comporta.
    2. Le reti all'arrivo. Le reti di arrivo sono ancora più importanti, in quanto permettono al migrante di cominciare a muoversi nel territorio del Paese ospitante.
    3. Le reti inclusive o integrative. Queste reti si definiscono in un secondo momento e si pongono l'obiettivo di garantire al migrante, una volta nel territorio, la possibilità d’ inserirsi nella comunità.

Integrazione
Le reti integrative permettono al migrante di integrarsi nella società. Ma che cosa significa “integrazione”? Innanzitutto l’integrazione è quel processo attraverso il quale si va ad istituire una rete di relazioni fra lo “Stato” e il “singolo individuo”, un processo in cui è presente l’azione di diversi enti governativi e non, come datori di lavoro, sindacati, associazioni religiose, centri di accoglienza e formazione che sostengono gli immigrati. Integrazione diviene, inoltre, sinonimo di istruzione.
Molti sono gli ostacoli che l’immigrato si trova ad affrontare, primo tra tutti quello della lingua. Da qui la necessità di promuovere un programma di accoglienza dell’immigrato, mirato a fornirgli un bagaglio linguistico sufficiente almeno ad un suo facile inserimento nel tessuto sociale e lavorativo. Inoltre è necessario fornire all’immigrato una coscienza civile basata sulla consapevolezza dei propri diritti e sul rispetto dei propri doveri.
Tutto ciò è finalizzato all’abbattimento delle discriminazioni da parte dello stesso mercato del lavoro e dei servizi che, non riconoscendo titoli di studio o qualifiche conseguite in patria, impiegano una manodopera di basso profilo o costringono persone specializzate a svolgere umili mansioni.
Ecco che il processo integrativo diviene lotta contro quelle chiusure mentali di derivazione xenofoba, ecco che l’istruzione diviene, per l’immigrato, l’unica arma per difendersi da discriminazioni.
Purtroppo questo processo di “avanzamento” culturale, nella considerazione del ruolo dell’ immigrato in Italia, è ancora lontano, infatti, come afferma la ricerca “Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano” del Cnel e del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, gli immigrati troveranno soprattutto posti poco qualificati e poco retribuiti.
In Italia lavorano, secondo i dati Oecd, più di un milione di stranieri. I marocchini costituiscono il gruppo più numeroso (14,9%), poi seguono albanesi, rumeni, filippini, tunisini, cinesi e slavi.
I datori di lavoro italiani offrono generalmente agli stranieri posti di lavoro per i quali è richiesta bassa o media qualifica, nel nord del Paese sono richiesti anche lavoratori qualificati, soprattutto nel settore industriale.
I settori in cui sono maggiormente occupati sono il commercio (28,8%), l’industria (acciaierie in particolare) con il 23,7%, servizi alle persone (quasi il 50% degli immigrati registrati lavorano in tale settore) e infine l’agricoltura.
Il tasso di disoccupazione in Italia, negli ultimi anni, è aumentato ma, per gli immigrati presenti nel nostro paese, il lavoro non manca, specie se in nero. Gli stranieri irregolari (422.000, dati Ismu), quelli senza un permesso di soggiorno, lavorano di più e guadagnano di meno rispetto a chi ha i documenti in regola.

I media e gli immigrati (di Maria Di Carlo)

Tutte le conoscenze e le informazioni riguardanti la nostra società ci sono fornite dai media. Essi ci portano ad ascoltare e a riflettere su fatti e problematiche riguardanti tutto il mondo.
I media inoltre hanno il potere di influenzare il nostro modo di pensare e leggere le notizie, grazie a dei meccanismi come l’euristica (meccanismo di semplificazione della conoscenza della realtà) che, insieme agli stereotipi, all'enfasi e alla ripetitività, ci portano a modificare la nostra percezione del reale e ad adottare un punto di vista omogeneo. Si tende a considerare più probabile un evento se è facile da ricordare o da richiamare alla memoria (euristica della disponibilità o dell’accessibilità).
Questo comporta che l' insistere da parte dei media sempre sulle stesse categorie di persone, per esempio gli immigrati, determini errate convinzioni sulla probabilità che siano sempre essi a causare problemi e a commettere delitti.
Un esempio di tale influenza possono essere le notizie di cronaca nera fornite dai media in occasione del delitto di Novi Ligure; inizialmente affermavano che il delitto fosse stato commesso da immigrati albanesi, dopo un po’ di tempo, si scoprì che tale delitto era stato commesso da un membro della famiglia e non da immigrati.
Tuttavia si continua ancora a credere che molti crimini violenti siano,  per la maggior parte delle volte, commessi da immigrati e non da italiani.

Calciatori senza frontiere (di Martina Valenti)

“Un calcio all'indifferenza: calciatori senza frontiere” è il titolo che abbiamo scelto per il torneo tenutosi al baretto di Termini Imerese, sabato 15 Marzo, che ha coinvolto gli studenti degli Istituti superiori ed alcuni ragazzi della casa famiglia “Sant'Anna”, provenienti da Eritrea, Ghana, Gambia e Somalia.
Quaranta giocatori si sono affrontati, divisi in otto squadre, mentre il resto dei partecipanti al progetto si è occupato delle interviste ai giocatori e alla mediatrice culturale Saida, delle foto e delle riprese. Alla fine della mattinata abbiamo pranzato tutti insieme.
Ciò che ci è rimasto di  quel pranzo è difficile da esprimere a parole, è stata un'emozione indescrivibile vedere dei ragazzi, alcuni dei quali avevano la nostra età, inizialmente guardare verso di noi intimiditi e subito dopo mettersi a suonare con una gioia nel cuore quasi inspiegabile, come se nella musica essi trovassero una via di fuga, una sorta di tranquillità.
L'entusiasmo che ci ha accompagnato durante tutta la giornata, tutto ciò che ci è stato trasmesso direttamente ed indirettamente, osservando gli occhi ed i sorrisi di ognuno di quei ragazzi, rimarrà sempre custodito dentro di noi come una delle più significative esperienze della nostra vita.
Un torneo di calcio ha unito cinque diversi paesi: Eritrea, Ghana, Gambia, Somalia, Italia.  Ognuno di questi ha condiviso qualcosa con l'altro: emozioni, musica, esperienze, passioni.
Alla fine credo che una domanda sorga spontanea nel cuore di tutti: perchè nulla può essere semplice e bello come una partita o come la musica?

Lo straniero nell'arte (di Riccardo La Rosa Mazza)

L'odalisca e la schiava
Il mondo dell’arte ha ormai sorpassato il problema della nazionalità e dell’appartenenza ad una cultura specifica. Questo lo conferma anche Bice Curiger, curatrice della Biennale di Venezia; in una recente intervista la studiosa afferma che:  “il concetto di nazione non evoca soltanto chiusura e confine ma anche utopia, apertura e ideali molto diversi dal nazionalismo che è stato il disastro del Novecento”, dice anche che gli artisti sono per lo più migranti”.Tra le molteplici forme d’arte,  quella maggiormente incisiva per denunciare i cambiamenti in atto nella nostra società è la fotografia che, sin dalla sua invenzione, racconta senza filtri la realtà intorno a noi. Sempre più spesso,  anche l’arte figurativa  affronta il tema dello straniero, ma esso  non proviene necessariamente da posti lontani; sono sempre più le persone che, pur vivendo nelle nostre stesse città, sono vicine fisicamente ma totalmente lontane sotto tutti gli altri punti di vista.

La grande odalisca
Il diverso però nell’arte crea curiosità e, anche quando ci si può avvalere solo del mezzo pittorico,  i pennelli soddisfano la curiosità verso il diverso, rendendolo fruibile a spettatori ignari della vastità del mondo. Già nel primo Cinquecento, a Padova, Giulio Campagnola raffigura negli affreschi della Scuola del Santo,  un re indigeno; questo accade solo pochi anni dopo la scoperta dell’America da parte di Colombo. Lo straniero però spesso è il pittore medesimo, invitato da regnanti o mecenati oppure costretto a lasciare la terra natia per trovare miglior fortuna.
Gli artisti “stranieri” costituivano talmente un punto di riferimento da modificare talvolta il modus operandi dei pittori locali. Di esempi ne esistono molti, per citarne solo alcuni si può pensare agli artisti fiamminghi che giunsero a Firenze nel 1500, oppure nella Russia del Seicento e del Settecento;  la pittura tradizionale veniva totalmente abbandonata, a favore di una pittura occidentale. L’abitante di terre esotiche e lontane diventò presto oggetto di desiderio e le opere che lo ritraevano individuavano il proprietario, non solo come un uomo colto e illuminato, ma anche veramente ricco; molti capolavori ci ricordano questo: dalla superba tela di Van Dick che raffigura la “Marchesa Elena Grimaldi Cattaneo” nel 1623, con il giovane servo di colore, alle opere del bellunese Andrea Brustolon, artista tra i maggiori interpreti del barocco veneziano, le cui magnifiche opere lignee ed i suoi preziosi manufatti riproducono moretti o etiopi, ancora imprigionati da pesanti catene, in pose plastiche, mentre sorreggono vasi usati come decorazioni di mobilio.
La curiosità verso lo straniero continuò nel secolo successivo quando l’oriente, agli occhi di un europeo, rappresentava l’evasione verso mondi esotici dove tutto era concesso. La moda e i dipinti, ma più avanti anche la stessa letteratura, contribuivano ad accrescere queste fantasie. Come non ricordare opere quali La grande odalisca del 1814, L’odalisca e la schiava del 1839 oppure Il bagno turco del 1862 di Ingres. Ancora, dopo qualche anno, Edouard Manet nel Ritratto di Emile Zola, testimonia la passione dello scrittore per l’oriente.
Anche nell’arte contemporanea questo complicato tema trova vasto spazio con l’ausilio della fotografia, come nelle immagini di Gabriele Montavano il quale, attraverso l’obiettivo, sceglie quale soggetto principale non solo lo straniero di nazionalità diversa ma, come già accennato precedentemente, anche persone che vivono a stretto contatto con lui, ma allo stesso tempo sono distanti ed estranee.
L’arte unisce popoli e culture in un linguaggio universalmente comprensibile, mirante a livellare differenze che altrimenti diventerebbero insopportabili.
Ognuno di noi, italiano o di un’altra nazionalità, davanti al genio e alla maestria di artisti, si commuove alla medesima maniera; tutto questo ci rende spettatori di un’unica meraviglia e ci fa vivere un’unica e inaspettata gioia. Allora uniamoci in una danza sull’intero mondo come ci dimostra bene Matisse in uno dei suoi quadri più famosi.

Chi è lo straniero? (di Rosalia Anzalone e Jessica Alongi)



La popolazione greca definiva “barbaro” colui che non parlava la lingua greca ed era considerato inferiore, senza famiglia e gruppo di riferimento. Il concetto odierno di “straniero” è comunque di negazione: egli è colui che non appartiene al nostro Stato ed è privo di cittadinanza.
La legislazione che riguarda lo straniero si fonda su alcune esclusioni: egli per esempio non può votare. Tuttavia  la comunità dovrebbe accettare, accogliere, valorizzare lo straniero, non solo come cittadino ma anche come uomo in sé. La società ospitante dovrebbe integrare l’immigrato, valorizzarlo, considerarlo di fondamentale importanza per il confronto, la crescita e lo sviluppo.
Tutte le differenze dovrebbero servire da “input” per andare avanti, conoscere, allargare gli orizzonti e sgombrare la mente da ogni pregiudizio.
Il volto dello straniero, i suoi occhi, la sua pelle possono farci comprendere le diverse situazioni del mondo, che ogni società si basa su un modello culturale, che ogni luogo ha la propria lingua, usi, costumi, abitudini quotidiane.
L’arrivo dello straniero ci disorienta ma ci conduce anche ad una riflessione e all’osservazione del mondo nella sua particolarità, complessità, ricchezza e vastità. Il confronto e la maturazione individuale favoriscono la crescita e lo sviluppo della società ospitante.

I flussi migratori (di Gloria Giovenco)



I flussi migratori rappresentano un aspetto complesso della società contemporanea, che la porta ad essere un interessante contenitore  di culture diverse che contribuiscono allo sviluppo di nuove idee e al cambiamento dei comportamenti quotidiani.
Negli ultimi cinquant’anni, il numero degli emigrati è raddoppiato, sviluppando flussi migratori dai paesi in via di sviluppo verso realtà più industrializzate come l’Europa e il Nord America. Grazie al loro lavoro, gli immigrati contribuiscono allo sviluppo economico dei paesi di adozione, anche se spesso continuano ad essere impegnati nello svolgimento di mansioni che risultano essere inferiori  rispetto alla loro qualifica. Il loro apporto non è soltanto economico, è anche culturale, infatti si è riscontrato che, rispetto alle migrazioni di inizio ‘900, una crescente percentuale di migranti è costituita da persone con un grado di istruzione medio-alto che ha contribuito all’apertura di un nuovo dialogo interculturale, particolarmente importante per le nuove generazioni.
La presenza degli immigrati inoltre è un fattore che “ringiovanisce” la popolazione dei paesi ospitanti, ossia aumenta la percentuale di giovani rispetto a quella degli anziani. Questo è particolarmente importante in paesi come l’Italia, caratterizzati da una bassa natalità.  Allo stesso tempo essi contribuiscono alla trasformazione della società in senso multiculturale, con il conseguente aumento nelle scuole, di studenti di lingua, cultura, nazionalità e religioni diverse.

Incontro del 18 dicembre 2013. Riflessioni sulla discriminazione (di Alberto Rosario Colombo e Riccardo La Rosa Mazza)



Nell’incontro del 18 dicembre di noi alunni delle scuole in rete con il responsabile del centro SPRAR della “Madonna della Catena“ di Termini Imerese, con l’assistente sociale e i giovani migranti provenienti dalla Nigeria, dalla Guinea e dalla Somalia abbiamo avuto modo di conoscere una realtà del tutto diversa da quella espressa da televisioni e giornali. I migranti ci sono apparsi come ragazzi disagiati e bisognosi di cambiare la propria condizione di vita e del tutto lontani da ogni forma di criminalità. Abbiamo compreso che nell’affrontare le problematiche relative al fenomeno dei flussi migratori, riguardanti la realtà lampedusana e quella italiana in genere, ci scontriamo sempre con pregiudizi e stereotipi radicati nella nostra cultura.
Lo stereotipo,  l’insieme di credenze e di idee che riguardano le caratteristiche di individui appartenenti a determinate etnie, è un’immagine ridotta della realtà, condivisa da un gruppo di persone; esso può portare alla nascita di pregiudizi che determinano atti discriminatori verso chi ci appare diverso. Il fenomeno discriminatorio non riguarda soltanto i migranti, ma è presente anche all’interno della nostra società.
Pensare per stereotipi, favorisce la discriminazione che può produrre effetti psicologici del tutto sconvolgenti, come ad esempio la diminuzione dell’autostima che si traduce spesso in comportamenti autolesionistici, la mancanza di aspirazioni future e, nei casi più gravi,  l’effetto “Pigmalione”, per cui l’individuo conferma l’immagine negativa che gli altri hanno di lui.
Guardando la televisione o leggendo i giornali, dovremmo interrogarci sul perché si tende spesso ad attribuire ai migranti comportamenti criminali e sugli effetti che tali commenti denigratori possono produrre. Spesso il pregiudizio e le aspettative negative generano un effetto  controproducente per cui “la profezia si avvera“ poiché l’essere umano tende a confermare l’immagine negativa che gli altri hanno di lui; questo accade anche a scuola quando gli insegnanti hanno aspettative negative nei confronti degli alunni.
Ecco perché attività come quella in cui siamo impegnati non arricchiscono soltanto il nostro bagaglio culturale, ma ci aiutano a superare i pregiudizi e gli stereotipi e ad interpretare meglio le notizie che i mass media ci impongono.